giovedì 12 luglio 2007

YUSRA

Yusra sembra più piccola di quello che è. Quando la conosco non noto subito il piccolo anello d'oro che porta al dito anulare della mano sinistra. Ed anche quando lo noto non ci faccio molto caso: sembra così giovane che non le darei più di diciotto anni. La prima cosa che mi rimane impressa di lei sono gli occhi: occhi grandissini per il viso minuto, occhi profondi che non si possono non notare...come i miei. Quando ero piccola tutti mi prendevano in giro per i miei occhi, così quando la vedo penso che deve essere stato così anche per lei, e la prendo subito in SIMPATIa.
Yusra è la più grande di tre sorelle ed un fratello, cresciuta nel villaggio di Dura, nel distretto di Hebron. Sua madre è molto malata, ha subito danni allo stomaco durante le gravidanze che le causano spesso emorragie interne. È costretta a letto la maggior parte del tempo e non può quindi occuparsi dei figli. Così Yusra ad undici anni è già una piccola donna: mentre il babbo lavora tutto il giorno, lei si occupa delle sorelline e del fratello, della casa, della cucina, delle pulizie.

A sedici anni Yusra sta facendo le scuole superiori, è molto brava in inglese e sogna solo una cosa: andare via, scappare dalla sua casa per sempre. La mamma sta meglio adesso, non ha più emorragie interne, ma hanno dovuto asportarle l'utero. Nella società tradizionale palestinese, in un piccolo villaggio come Dura, chiuso e fortemente legato alle tradizioni maschiliste che vogliono la donna come procreatrice di figli, una donna senza utero è una moglie inutile. Così la madre del marito, che ha sempre un grosso potere all'interno della famiglia, insiste con il padre di Yusra perché si sposi una seconda volta prendendo una donna che possa dargli altri figli. Questo genera litigi e scontri all'interno della coppia, con il risultato che la casa sembra sempre un campo di battaglia. Yusra con i suoi sedici anni è già stanca, sogna una vita tutta sua, sogna una casa dove sia lei a dettare le regole, sogna una famiglia vera.
Così quando conosce Mohammed, non la sfiora neanche l'idea di non considerare la sua proposta di matrimonio: lui è sei anni più grande di lei, religioso praticante come lei, grandi promesse sulla bocca, spalle larghe per lavorare. Yusra ha solo sedici anni, ma questo è quello che sta aspettando: la possibilità di scappare via, di crearsi una famiglia tutta sua, il caldo focolare dove crescere i suoi bambini, un uomo che la ami al suo fianco: le sembra quasi un sogno quando i suoi genitori le comunicano che lui l'ha chiesta in sposa ed accetta subito.

A diciannove anni, Yusra decide di fare l'università nonostante nel suo grembo il piccolo Jihad stia lentamente crescendo, nonostante il marito non capisca questa sua voglia di continuare a studiare quando deve già occuparsi della casa e presto di un bambino. Ma Yusra non vuole mollare, lei la vuole la sua laurea in inglese, lei sa che ce la può fare. Nonostante Mohammed si sia rivelato molto meno affettuoso e premuroso di quanto pensasse, nonostante non abbia neanche il tempo di domandarsi se davvero è felice, nonostante dentro di lei qualcosa stia morendo, Yusra non molla. E non molla neanche quando i commenti del marito diventano insulti veri e propri, quando agli insulti cominciano ad aggiungersi le botte, mentre lui passa le sue giornate bighellonando per il villaggio e lei lavora, studia, cresce il loro bambino, bada alla casa.

Yusra compie 21 anni: la sua laurea con ottimi voti le permette di trovare subito lavoro come insegnante alla scuola elementare del villaggio, il piccolo Jihad cresce e adesso c'è una sorellina in arrivo: Yusra crede che questo cambierà un po' le cose. Adesso ha più tempo per dedicarsi alla casa, Mohammed sarà contento di lei, lei sarà come lui vuole. Perché Yusra sa che è stata colpa sua se le cose non sono andate tanto bene negli ultimi anni: lei era occupata a studiare e non è stata capace di essere una buona madre ed una buona moglie, come il marito le ricorda tutti i giorni. A dire la verità, Mohammed sembra orgoglioso più dello stipendio che di lei: se lo intasca tutti i mesi costringendo Yusra a chiedergli ogni giorno i soldi, anche per andare a fare la spesa. La nascita della piccola Kauthar non migliora le cose: gli insulti continuano e così le botte, anche davanti ai bambini. Continuano gli abusi, continua l'inferno. Yusra però non molla, glielo hanno insegnato fin da quando è piccola, che se un matrimonio non va è colpa della donna, che il suo compito è soddisfare il marito, che la sua funzione si esaurisce in quella di buona moglie e madre. Yusra sa che la colpa è sua, quindi è lei che deve risolvere i problemi, è lei la causa e la soluzione.

Il 28 maggio 2007 Yusra ha venticinque anni e non riesce a dormire. Le lacrime le rigano il volto, il suo corpo trema come una foglia, ma i suoi singhiozzi sono silenziosi: giace distrutta nel letto, l'anima lacerata come il povero corpo. Ma questa volta non sono le botte a farla piangere, il dolore del corpo passa, quello dell'anima no. Yusra lo sapeva, lo sapeva da tempo che Mohammed si vedeva con qualcun'altra. Se lo sentiva, lo aveva capito dalle telefonate mute che ogni tanto riceveva in casa, dalle assenza sospette, dai commenti che giravano in paese: la gente mormora, specialmente in un villagio piccolino come Dura. Ma non si sarebbe mai aspettata quello che il marito solo poche ore prima le aveva comunicato, questo era troppo anche per lui, questa era davvero l'ultima umiliazione. In Palestina avere una seconda moglie è molto raro, è legale ed accettato, ma molto, molto raro: si tratta in genere di casi in cui la prima moglie è molto vecchia o impossibilitata ad avere figli, quindi il marito si risposa, e sempre con il consenso della prima moglie. Mohammed non lo chiede neanche il consenso di Yusra, le comunica solo la sua decisione: si risposerà con una donna più giovane, che saprà essere una brava moglie come lei non è, e badare ai suoi figli come lei non è capace di fare. E lei, come da tradizione, dovrà organizzare la festa di fidanzamento e il matromonio.


Quelle parole risuonano nelle orecchie di Yusra per ore, non riesce a farle andare via, e le botte che sono arrivate dopo le sue rimostranze sono state quasi un sollievo, un diversivo dal dolore che provava dentro, un dolore per coprirne un altro, lividi viola per coprire il buio della sua anima.
Yusra non sa esattamente cosa sta facendo quando si alza dal letto e va nella stanza dei suoi bambini, non sa esattamente perché dà loro un bacio sulla fronte senza svegliarli e poi esce dalla loro stanza. Yusra non sa che cosa ha messo nella borsa quando le sue mani tremanti prendono le chiavi di casa e aprono la porta, sa solo che qualcosa la spinge ad andare via. E segue il suo istinto, come ha sempre fatto nella sua vita: paura e dolore sono stati la spinta di ogni sua azione da quando ha sedici hanni. Trascorre la notte in taxi andando verso il confine con la Giordania, dove passa dall'altra parte e si trova alle dieci di mattina davanti alla porta di casa dei suoi genitori ad Amman. Quando sua madre apre la porta, Yusra non parla, non dice niente. Le lacrime e i singhiozzi parlano per lei: e d'improvviso non ha più 25 anni, non è più una madre ed una moglie. D'improvviso una bimba di dieci anni piange e singhiozza tra le braccia della mamma, d'improvviso non c'è più niente da dire, non ci sono problemi da cui scappare, d'improvviso c'è solo il calore di un abbraccio. E non importa più cosa è stato, non importa cosa sarà, d'improvviso l'unica cosa che conta è quel profumo di casa, le braccia del babbo che la sollevano e la portano nella sua stanzetta, il sonno che si impossessa del suo corpo, mentre tra le lacrime scorge solo quei due volti rigati dalle rughe che vegliano su di lei.

Quando ho conosciuto Yusra erano passati dieci giorni da quella notte. Mi ha raccontato la sua storia la prima notte in cui abbiamo condiviso una stanza d'albergo ad Amman per partecipare ad un corso di mediazione interreligiosa. Io venivo da Beit Sahour, a pochi chilometri da Dura e conosco bene il suo villaggio. Così abbiamo cominciato a parlare. Yusra adesso ha un lungo e tortuoso cammino davanti a sé: per poter divorziare dovrà pagare al marito una cifra come 6000 euro (il suo stipendio è di circa 300 dollari al mese) e dovrà ricorrere alla corte per ottenerlo, con il rischio di essere condannata per aver abbandonato i figli. Non solo, Yusra non potrà mai più risposarsi perché nessuno accetterebbe di sposare una donna divorziata a Dura, e tutto il suo villaggio la accusa di aver fatto fallire il matrimonio, e di essere stata una cattiva madre ed una cattiva moglie. Yusra però dovrà tornare a Dura a settembre perché il suo lavoro è lì: ed ha paura, paura che nonostante il divorzio il marito la aspetti per fargliela pagare, per punirla della vergogna che ha gettato su di lui scappando. Ci vorranno almeno tre o quattro mesi per ottenere il divorzio, ma Yusra è fortunata perché la sua famiglia ha deciso di appoggiarla, di non costringerla a tornare dal marito. In tutto questo periodo di tempo Yusra non può vedere i bambini che ha dovuto lasciare con il marito: la corte probabilmente glieli affiderà, ma solo fino ai nove anni, poi se il marito li reclamerà per sé, sarà suo diritto averli. Yusra ha un lungo cammino davanti a sé, ma i primi passi li ha fatti. Per ora l'unica cosa fondamentale è ricucire le ferite, è abbandonare il senso di colpa che la perseguita, è cercare di capire che dedicarsi agli altri non vuol dire abbandonare se stessi. Yusra ha un futuro, questa è l'unica cosa che conta.

Come lei decine e decine di donne in Palestina vivono situazioni di sofferenza e soprusi, che non sono frutto della religione, infatti questo accade nelle famiglie musulmane come in quelle cattoliche, e in quelle cristano ortodosse, ma di una cultura tradizionale e chiusa, che ripropone una situazione dell'Italia di cinquant'anni fa. Qui, nei piccoli villaggi lontani dalle grandi città, la tradizione è identità, le regole di convivenza sono le stesse da decine di anni e nessuno osa metterle in discussione. Qui il delitto d'onore non è acqua passata, è una realtà ancora viva ed accettata, l'organizzazione patriarcale della famiglia è la base dell'organizzazione sociale, così come i matrimoni organizzati sono la norma. Pochissimi criticano questa situazione perché ogni attacco è una dichiarazione di complotto con Israele, ogni critica è taciuta in nome dell'occupazione. Neanche Yusra e la sua famiglia criticano questo sistema, per loro Yusra ha solo avuto sfortuna. Io dal mio piccolo cerco di non giudicare, ma quando la guardo mentre mi racconta di come abbia fallito nel suo compito di moglie e di madre, non posso fare a meno di pensare che tutto questo non è solo ingiusto, non è solo assurdo. Tutto questo è la perpetuazione della condizione delle donne che sono state e continuano ad essere ancora oggi una delle categorie più sfruttate e oppresse all'interno di tutte le società, si definiscano queste occidentali o orientali o africane. La donna, creatrice di vita e motore della famiglia, viene spesso all'interno della stessa oppressa e schiacciata, fino al suo totale annullamento come persona, in funzione di una totale subordinazione alle figure maschili.
Mentre saluto Yusra per tornare a casa, spero che possa riabbracciare i suoi bambini, spero che tutto questo cambi e che la sua storia un giorno sia solo...storia!

martedì 3 luglio 2007

COSA SUCCEDE IN LIBANO?

Un'autobomba che uccide sei caschi blu, razzi Katiusha sparati verso Israele, attentati nel pieno centro di Beirut e soprattutto il feroce e sanguinoso assedio dell'esercito libanese ai militanti islamici in un campo profughi palestinese a Tripoli, che ha suscitato una caccia al palestinese in tutto il paese. Un'ondata di violenza scuote il paese dei cedri, che cercava di ricucire le pesanti ferite della recente guerra con Israele. Alla vigilia dell'insediamento del tribunale internazionale per scoprire i responsabili dell'omicidio dell'ex premier anti-siriano Rafik Hariri. Le recenti notizie dal Libano, prive di legami apparenti, potrebbero invece presagire cupi scenari
futuri, nel paese in cui le potenze occidentali e mediorientali hanno da sempre giocato le loro guerre sporche.

Tutto è cominciato il venti maggio scorso, quando, dopo una rapina in una banca di Tripoli, un gruppo di miliziani islamici ha aperto il fuoco su una postazione dell'esercito libanese, provocando numerose vittime tra i soldati e rifugiandosi quindi nel vicino campo profughi palestinese di Nahr al Bared. Il campo ospita quarantamila profughi palestinesi cacciati dalle milizie israeliane nel 1948, durante gli scontri e la pulizia etnica che portarono alla creazione dello stato ebraico (il Libano ospita la maggior parte dei profughi palestinesi, circa quattrocentomila, un decimo della popolazione libanese). L'esercito libanese ha quindi circondato il campo profughi e iniziato a bombardarlo a tappeto, mentre i miliziani hanno risposto al fuoco con cecchini e granate. I
miliziani islamici fanno parte del finora sconosciuto gruppo armato Fatah al-Islam, analogo a numerosi gruppi staccatosi lo scorso anno da fazioni palestinesi filo-siriane e a quanto pare legati ai gruppi della jihad sunnita internazionale.

Negli ultimi mesi, vari gruppi armati di questo tipo sono arrivati nei campi profughi libanesi, molti miliziani non sono palestinesi ma provengono da altri paesi mediorientali, come si è potuto constatare dall'identità delle vittime negli scontri, tra cui figuravano sauditi, iracheni, siriani e persino alcuni europei e australiani. Le principali fazioni palestinesi di Hamas e Fatah hanno cercato da subito di disarmare questi gruppi ed espellerli dai campi, tuttavia questi si sono rivelati bene armati e pronti a tutto. Nel caso dei circa trecento membri di Fatah al-Islam, la loro mancanza di scrupoli si è resa evidente quando hanno deciso di asserragliarsi nel campo profughi facendosi scudo dei quarantamila civili palestinesi. È incominciato un cruento assedio tuttora in corso, in cui i profughi hanno avuto ovviamente la peggio: chi ha tentato la fuga tra gli scontri
incessanti, ha trovato dapprima l'esercito libanese a sbarrare la strada, per timore che tra i civili si nascondessero militanti armati. In seguito, i militari han deciso di lasciar scappare donne e bambini, ma arrestare e deportare tutti gli uomini, che, rilasciati dopo qualche giorno, hanno mostrato numerosi i segni di torture e umiliazioni di ogni tipo. Il resto dei profughi, che stanno dunque vivendo il dramma di essere due volte sfollati, si è ammassato nel vicino campo di Beddawi. Già sovraffollato, ha visto raddoppiare la popolazione raggiungendo una situazione insostenibile, tanto che gli sfollati hanno deciso di tentare il tutto per tutto e far ritorno nei
giorni scorsi a Nahr al Bared. L'esercito, tuttavia, dopo aver raso al suolo il campo profughi, sta ancora assediando le rovine per far fuori gli ultimi miliziani ancora in vita: i soldati dunque han
bloccato la strada alla folla di palestinesi che cercava di tornare e davanti alle loro proteste non
hanno esitato ad aprire il fuoco sui civili inermi, uccidendo tre persone e ferendone cinquanta.

Il bilancio attuale dei feroci scontri a Nahr al Bared è una carneficina: ottanta soldati libanesi uccisi, altrettanti miliziani e una cinquantina di civili, nell'episodio più cruento che il libano ricordi dalla fine della guerra civile. Gli scontri, oltre ad essersi estesi ad altri campi profughi, hanno avuto pesanti ripercussioni sui palestinesi presenti in Libano. La popolazione e i media libanesi si sono schierati compatti alle spalle del proprio esercito e contro i profughi palestinesi, dando in sostanza carta bianca ai soldati di sparare a vista. Forse si è trattato di una sorta di rivincita: siccome l'esercito libanese non ha mosso un dito per proteggere il paese dall'invasione israeliana la scorsa estate, ora che finalmente mostra di reagire con fermezza sta risvegliando un tardivo sentimento patriottico. Si è dunque creato nel paese un clima di vera e propria caccia al palestinese, per cui ad ogni check point dell'esercito si può essere arrestati e brutalizzati per il solo fatto di essere palestinesi e le testimonianze in questo senso aumentano di giorno in
giorno. I profughi palestinesi, dunque, che dopo sessant'anni sono ancora privi di qualsiasi diritto e non possono nemmeno usufruire di servizi statali come sanità e istruzione, stanno subendo un'ennesima e più pesante discriminazione, i cui sviluppi sono difficili da prevedere.

Alla scoperta dell'esistenza di questi numerosi gruppi islamici, composti da palestinesi e da combattenti internazionali, è seguita subito una serie di attacchi privi di rivendicazione, ma a quanto pare legati agli scontri nel campo profughi di Nahr al Bared e rivolti ad acuire il crescente clima di tensione. Alcuni razzi Katyusha sono stati lanciati contro Israele ed Hizbullah si è affrettato a condannare recisamente l'attacco, temendo che in mancanza di rivendicazione
gli venisse erroneamente attribuito. Ma l'episodio più grave è successo la scorsa settimana, quando un'autobomba, probabilmente guidata da un kamikaze, ha causato la morte di tre caschi blu spagnoli e tre colombiani, a pochi chilometri dal confine israeliano. L'attacco ha richiamato l'attenzione dei paesi occidentali sulla polveriera libanese, mettendo in evidenza la totale imprevedibilità che caratterizza il paese: mentre il pericolo evidente per l'UNIFIL è rappresentato dalle tensioni tra Hizbullah e Israele, l'attacco al contrario sembra legato agli scontri interni di Nahr al Bared ed ha natura puramente destabilizzante. Si somma ai recenti attentati non rivendicati nel centro di Beirut, sei in tutto, che hanno visto autobombe colpire in sequenza il quartiere cristiano, quello sunnita e un parlamentare filo-siriano, provocando decine di morti e feriti, senza alcuno schema apparente.

Il segretario generale dell'ONU Ban Ki-Moon ha denunciato di fronte al consiglio di sicurezza la
palese violazione della risoluzione 1701, data dalla mancanza di controlli al confine tra Libano e Siria, che lo rendono completamente permeabile al traffico di armi e uomini. Un esempio, come si è visto, è l'arrivo di combattenti sunniti ben addestrati che dai paesi arabi rinforzano le fila di gruppi armati islamici. Un altro esempio è l'incessante rifornimento di missili anti-carro e anti-aereo che Siria e Iran forniscono a Hizbullah, per rimpinguare le perdite subite l'estate
scorsa durante la guerra contro Israele, che ebbe fine grazie alla stessa risoluzione (va menzionato che al tempo stesso e alla luce del sole gli Stati Uniti hanno ripristinato a fondo perduto gli arsenali israeliani). Mentre ingenti quantità di armi vengono ammassate in Libano, la situazione politica si trova in una fase di totale stallo. L'opposizione di Hizbullah, infatti, dopo le manifestazioni oceaniche dei giorni scorsi, non essendo riuscita ad ottenere le elezioni, ha deciso di paralizzare il governo filo-americano di Fouad Siniora. Questi, a sua volta, sta cercando di rendere operativo il tribunale dell'ONU, incaricato di trovare e punire i responsabili del brutale omicidio dell'ex premier anti-siriano Hariri del 2005, i cui mandanti Siniora non fa mistero di individuare nei siriani e in Hizbullah.

Se, come è probabile, l'amministrazione americana e Israele non potranno permettersi un attacco alle centrifughe nucleari iraniane, non è inverosimile che il braccio di ferro con la repubblica islamica trovi sfogo in un conflitto in Libano, come si è visto la scorsa estate. Dopo aver assistito alla “libanizzazione” dell'Iraq, la guerra civile tra sciiti armati dagli iraniani e sunniti armati dai sauditi potrebbe estendersi all'anello debole del Medioriente, provocando a sua volta una “irachizzazione” del Libano, dove alla forte presenza filo-iraniana di Hizbullah si stanno contrapponendo questi diffusi e ben armati gruppi arabi sunniti. A fare le spese di questo worst case scenario, ancora una volta, sarebbe la popolazione civile libanese e i profughi palestinesi, che dopo anni di guerre e occupazioni stanno faticosamente cercando di ricostruire il paese gli uni e di vivere in pace gli altri.

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