mercoledì 7 febbraio 2007

L’ABBRACCIO DI UN ANGELO

Quando i soldati arrivano al campo dove circa venti internazionali stanno aiutando i contadini locali a piantare gli alberi di ulivo nessuno sembra spaventato. Stiamo solo piantando delle piantine..cosa ci può essere di male in questo? E poi non si può sentirsi spaventati da sei ragazzini ventenni, sguardo smarrito e un po’ intontito dalla paura che sbuca da un giubbotto antiproiettili davvero troppo grosso per loro. “Avete tre minuti per andarvene, poi vi arrestiamo questa è una zona militare” Come può un campo di ulivi di proprietà di una famiglia palestinese diventare una zona militare? Qui non ci sono basi militari, solo una decina di roulotte di coloni che hanno scelto questa collina come loro casa, chiudendosi in una prigione circondata da filo spinato e soldati poco più che ventenni. Ma tre minuti sono abbastanza, bastano e avanzano per piantare gli ulivi rimasti.

I soldati non sembrano della stessa idea però..e forse i loro orologi funzionano in modo diverso, perché dopo pochi secondi stanno saltando sopra una piantina appena interrata spezzandone gli esili ramoscelli.
Hassan ha solo 12 anni. Non dovrebbe neanche stare qui, dovrebbe essere a casa a giocare con gli amichetti. Ma qui si cresce in fretta e Hassan è già un piccolo attivista che va nei campi confiscati del babbo a piantare alberelli di ulivo con persone che non conosce e che parlano un’altra lingua. Sembra la bimba con il cappotto rosso di Schindler List, lui con la sua felpa giallo canarino che risalta sullo sfondo marrone scuro e verdone della terra. E come tutti i dodicenni forse non lo sa neanche cosa sta facendo quando si scaglia contro un soldato che ha appena spezzato la sua piantina di ulivo e gli sferra un bel calcio negli stinchi. E anche Abram, con il suo M-16 al collo e i suoi pochi vent’anni non lo sa davvero cosa sta facendo quando lo afferra per le spalle e comincia ad urlargli in faccia. Due bambini. Due bambini che litigano per un gioco conteso. Faccia contro faccia, a due centimetri di distanza una dall’altra che si urlano una rabbia non loro, eredità di due popoli che hanno trasformato il dolore in odio e hanno incatenato i loro figli in una spirale di violenza senza uscita.
In una frazione di secondo ci sono almeno trenta persone accalcate le une sulle altre che cercano di dividerli, ma ormai è troppo tardi..
Così, mentre tutti si spintonano e alle urla si sovrappongono altre urla, qualcuno fa qualcosa che nessuno si aspetta. Non so da dove arrivi, o chi sia. Piano piano, entra silenzioso nel cerchio di gente, soldati, internazionali, poliziotti, contadini, bambini, e, come un angelo arrivato da chissà dove, fa la cosa più semplice del mondo: lo abbraccia.
E’ una frazione di secondo...tutto si ferma per una impercettibile frazione di secondo: il ragazZino ha lo sguardo smarrito, il soldato per un attimo si dimentica di urlare. Lui non sembra neanche vero, sembra non essere li, in mezzo a M-16 e granate e pistole e rabbia vomitata da bocche assetate di odio. Ma io lo vedo.

Solo, un angelo abbraccia quella felpa gialla e con il suo corpo gli fa da scudo.

Tutto ciò che accade dopo è una danza, una danza ballata sulle note di rinnovate urla confuse, sembra che nessuno abbia sentito quel secondo di silenzio che ho sentito io. Una danza che si lascia cullare dalla melodia di una madre che prega perché suo figlio di dodici anni non venga arrestato. E quelli che prima erano solo due bambini incattiviti sono ora il fulcro di un grande cerchio: internazionali e soldati che si tirano e si abbracciano chi per impedire che qualcuno venga portato via chi per strappare dalle mani del “nemico” un prezioso ostaggio. E il cerchio nel frattempo si sposta e si muove sul campo lasciandosi dietro le povere piantine spezzate dal peso di tanta rabbia, le scarpe di Hassan semi-ricoperte di terra, le urla della madre che si aggrappa alla giacca del soldato implorandolo di lasciare il suo bambino.
Ma l’angelo non molla, non si scompone, non si lascia contagiare da tanta rabbia e disperazione. E’ la forza dell’amore e della solidarietà contro la paura e l’odio. E’ una battaglia vinta in partenza.
E’ la forza della calma e della pazienza. L’angelo è sempre li, anche se nessuno lo vede davvero. Perché è molto più facile vedere la paura e l’odio e sentire le grida e gli insulti, piuttosto che percepire il silenzioso canto della speranza. Ma lui rimane li. Un angelo, solo, contro un gigante.

Come quello che ho visto io, altri angeli calpestano questa terra. Come lui, anche io nel mio piccolo mi sento di lottare per la solidarietà e non per la rabbia.
Questa storia è dedicata a tutti gli angeli che camminano tra noi, dai ragazzi dell’Operazione Colomba a quelli del CPT, dai Caschi Bianchi nel mondo ai pacifisti di ogni luogo.
Questa storia è dedicata ad una felpa gialla che corre giù per la collina dopo aver danzato con un angelo al suo fianco. Questa storia è dedicata ad un soldato che tornando a casa forse chiederà un abbraccio a sua madre per capire cosa ha provato quella felpa che gli è sfuggita dalle mani.
Questa storia è dedicata a tutti coloro che aspettano che il loro angelo arrivi a salvarli..non perdete la speranza, loro sono tra noi!!

Questa storia è dedicata a Runa.

1 commento:

L.C. ha detto...

Non è possibile...poche frasi e hai detto tutto..davvero..è spiazzante. Il primo istinto è quello di tradurlo in inglese e farlo leggere al tuo "angelo"..credo ne rimarrebbe spiazzato. Ed, inoltre..grazie per aver reso qualcosa che io,e forse nessun altro avrebbe reso tale. Aver tentato di entrare dentro la paura e l'anima dei soldati..a volte è talmente difficile. E' difficile rendere giustizia a tutti. Beh...Last but not least. Grazie per il tuo "eloquente" silenzio di quel momento...