In uno dei miei primi post ho parlato del concetto di Direct Democracy, o democrazia diretta, impersonato nel concetto di authanarchy cosi' come espresso da Akiva Orr nel suo omologo pamphlet.
Uno dei concetti espresso da Akiva nel suo manifesto sulla Democrazia Diretta e' il potere che ogni cittadino deve avere (sempre) di decidere, votare o revocare una decisione presa, e la totale mancanza di rappresentanza nell'esercizio di questo potere.
Una delle critiche piu' forti a questo concetto e' come fare passare da un sistema organizzato come la democrazia rappresentativa ad un sistema di democrazia diretta senza una rivoluzione violenta o il rischio di una guerra civile. Nella pratica il problema si esprime in termini di cambiamento del sistema vs cambiamento nel sistema. Il cambiamento del sistema porta inesorabilmente alla distruzione del sistema precendente, con tutti i rischi connessi. Un cambiamento nel sistema dall'altro lato prevede la creazione di misure di contenimento dei danni, ma non alla soluzione del problema. Tutto questo naturalmente partendo dal presupposto che le vere cause dei problemi sono intrinseche nel sistema stesso e nella sua struttura primordiale.
Io stessa mi sono spesso chiesta come e in che modo, senza contemplare l'uso della violenza, sia possibile costruire un sistema veramente democratico come la democrazia diretta senza incorrere nel rischio che la distruzione del sistema precedente porti a troppi danni collaterali o alla totale mancanza di basi per poter costruire poi un'altro sistema sulle ceneri del precedente.
Finche', pochi giorni fa, non ho avuto una brillante conversazione con la mia coinquilina, una architetto palestinese, creasciuta a Gerusalemme ed ora a NY per fare un master e possibilmente un dottorato. Nora mi ha spiegato il concetto di autodeterminazione urbanistica cosi' come studiato nel cosiddetto spazio degli invisibili, i campi profughi.
Il concetto e' molto semplice. In un posto come i campi profughi, dove non esiste pianificazione urbanistica ne' regole urbanistiche da seguire, la popolazione, in assenza totale di regolamentazioni, si auto-organizza e gestisce il proprio spazio in totale anarchia, ma senza sopprusi. La popolazione dei campi profughi auto-crea e gestisce i propri spazi senza per questo incorrere in eccessive problematiche e ottenendo di fatto spesso un risultato molto migliore di quanto non ottenga l'urbanistica pianificata delle citta'.
Applicato al concetto di politica questo concetto e' assolutamente brillante. Nella nostra idea di anarchia, come assenza di potere organizzato e di gerarchia, ma anche di ordine e di regole (che io non condivido come definizione di anarchia , ma uso qui a titolo di esempio) lo spazio politico dei campi profughi rappresenta cosa ccade quando non esiste piu' un sistema. La autodetrminazione dei popoli non e' un diritto che viene dato dall'alto, ma e' una forma di organizzazione politica che si sviluppa da sola.
In Somalia l'anno scorso 6 studenti si sono laureati in medicina all'universita' di Mogadisho. In Somalia non esiste un governo da almeno 10 anni che abbia il controllo sul paese e tantomeno su Mogadisho. Eppure, non solo la vita va avanti, ma la gente si autorganizza e riesce a fare le stesse cose che noi consideriamo associate alla sola esistenza di un potere centrale democratico e rappresentativo.
L'esperimento politico dei campi profughi e' estremamente interessante: il concetto di self- determination infatti si esprime in un ambiente dove non esiste alcuna struttura di base, alcuna autorita' con potere di enforcement spesso, e dove la totale gestione e creazione della societa' e' lasciata al potere o volere delle singole persone. Quello che ne viene fuori e' un sistema basato sulla autodecisione, sulla democrazia diretta, che porta ad uno stato di welfare, che non e' uno stato ma una sociata' di welfare, che si prende cura delle categorie piu' deboli, che provvede alla suddivisione delle risorse e degli introiti. La stessa educazione spesso e' completamente autogestita, e cosi' vale per la sicurezza e l'economia di mercato.
E' lo spazio degli invisibili, dove vengono relegati coloro che non si vogliono vedere, in questo sistema di apartheid globale dove esistono categorie di invisibili che vengono isolati anche dal punto di vista urbanistico, una partheid spaziale e politica, che vediamo anche nelle nostre citta', a partire dal muro cotruito a Padova per isolare gli immigrati, dai cancelli degli ex-CPT, alle barriere di Genova nel 2001. Lo spazio come espressione dell'apartheid politica. Questo spazio diventa arena politica di creazione di una nuova struttura sociale, una struttura basata sull'autodecisione e sulla autogestione, che porta ad una espressione di democrazia che non ha niente a che vedere con quella che noi ipotizziamo sola e possibile.
Ed ora la domanda e'..cosa succede quando questo spazio si apre? Cosa viene fuori e cosa entra? Quando saranno di piu' quelli fuori che quelli dentro, come gli invisibili si riprenderanno il loro spazio?
Uno dei concetti espresso da Akiva nel suo manifesto sulla Democrazia Diretta e' il potere che ogni cittadino deve avere (sempre) di decidere, votare o revocare una decisione presa, e la totale mancanza di rappresentanza nell'esercizio di questo potere.
Una delle critiche piu' forti a questo concetto e' come fare passare da un sistema organizzato come la democrazia rappresentativa ad un sistema di democrazia diretta senza una rivoluzione violenta o il rischio di una guerra civile. Nella pratica il problema si esprime in termini di cambiamento del sistema vs cambiamento nel sistema. Il cambiamento del sistema porta inesorabilmente alla distruzione del sistema precendente, con tutti i rischi connessi. Un cambiamento nel sistema dall'altro lato prevede la creazione di misure di contenimento dei danni, ma non alla soluzione del problema. Tutto questo naturalmente partendo dal presupposto che le vere cause dei problemi sono intrinseche nel sistema stesso e nella sua struttura primordiale.
Io stessa mi sono spesso chiesta come e in che modo, senza contemplare l'uso della violenza, sia possibile costruire un sistema veramente democratico come la democrazia diretta senza incorrere nel rischio che la distruzione del sistema precedente porti a troppi danni collaterali o alla totale mancanza di basi per poter costruire poi un'altro sistema sulle ceneri del precedente.
Finche', pochi giorni fa, non ho avuto una brillante conversazione con la mia coinquilina, una architetto palestinese, creasciuta a Gerusalemme ed ora a NY per fare un master e possibilmente un dottorato. Nora mi ha spiegato il concetto di autodeterminazione urbanistica cosi' come studiato nel cosiddetto spazio degli invisibili, i campi profughi.
Il concetto e' molto semplice. In un posto come i campi profughi, dove non esiste pianificazione urbanistica ne' regole urbanistiche da seguire, la popolazione, in assenza totale di regolamentazioni, si auto-organizza e gestisce il proprio spazio in totale anarchia, ma senza sopprusi. La popolazione dei campi profughi auto-crea e gestisce i propri spazi senza per questo incorrere in eccessive problematiche e ottenendo di fatto spesso un risultato molto migliore di quanto non ottenga l'urbanistica pianificata delle citta'.
Applicato al concetto di politica questo concetto e' assolutamente brillante. Nella nostra idea di anarchia, come assenza di potere organizzato e di gerarchia, ma anche di ordine e di regole (che io non condivido come definizione di anarchia , ma uso qui a titolo di esempio) lo spazio politico dei campi profughi rappresenta cosa ccade quando non esiste piu' un sistema. La autodetrminazione dei popoli non e' un diritto che viene dato dall'alto, ma e' una forma di organizzazione politica che si sviluppa da sola.
In Somalia l'anno scorso 6 studenti si sono laureati in medicina all'universita' di Mogadisho. In Somalia non esiste un governo da almeno 10 anni che abbia il controllo sul paese e tantomeno su Mogadisho. Eppure, non solo la vita va avanti, ma la gente si autorganizza e riesce a fare le stesse cose che noi consideriamo associate alla sola esistenza di un potere centrale democratico e rappresentativo.
L'esperimento politico dei campi profughi e' estremamente interessante: il concetto di self- determination infatti si esprime in un ambiente dove non esiste alcuna struttura di base, alcuna autorita' con potere di enforcement spesso, e dove la totale gestione e creazione della societa' e' lasciata al potere o volere delle singole persone. Quello che ne viene fuori e' un sistema basato sulla autodecisione, sulla democrazia diretta, che porta ad uno stato di welfare, che non e' uno stato ma una sociata' di welfare, che si prende cura delle categorie piu' deboli, che provvede alla suddivisione delle risorse e degli introiti. La stessa educazione spesso e' completamente autogestita, e cosi' vale per la sicurezza e l'economia di mercato.
E' lo spazio degli invisibili, dove vengono relegati coloro che non si vogliono vedere, in questo sistema di apartheid globale dove esistono categorie di invisibili che vengono isolati anche dal punto di vista urbanistico, una partheid spaziale e politica, che vediamo anche nelle nostre citta', a partire dal muro cotruito a Padova per isolare gli immigrati, dai cancelli degli ex-CPT, alle barriere di Genova nel 2001. Lo spazio come espressione dell'apartheid politica. Questo spazio diventa arena politica di creazione di una nuova struttura sociale, una struttura basata sull'autodecisione e sulla autogestione, che porta ad una espressione di democrazia che non ha niente a che vedere con quella che noi ipotizziamo sola e possibile.
Ed ora la domanda e'..cosa succede quando questo spazio si apre? Cosa viene fuori e cosa entra? Quando saranno di piu' quelli fuori che quelli dentro, come gli invisibili si riprenderanno il loro spazio?