martedì 6 febbraio 2007

Storie di ordinaria follia? o di pianificata umiliazione?

Sono le quattro e quaranta quando arriviamo al checkpoint Gilo…anzi, non più checkpoint, adesso questo è un terminal. E’ un confine di stato per Israele, per i palestinesi è solo un ulteriore strumento di oppressione, un modo come un altro per umiliarli. Di fronte a noi il muro: alto otto metri incute timore. Se anche non avesse il significato che ha, basta la sua sola presenza e far sentire nell’aria quell’odore amarognolo di sconfitta, la sconfitta dell’umanità che si distingue dagli animali solo per la sua capacità di fare del male senza la scusante dell’istinto o della fame. Lì davanti, assi di legno appoggiate su mattoni sono il surrogato di piccoli negozi: ben ordinate su di esse scatole di humus,mutabal e pane, il pranzo di chi ha troppa fretta e troppo poco tempo per prepararsi un pasto caldo. Le uniche luci sono quelle dei neon che si riflettono sulle facce stanche dei loro proprietari, occhi che sbucano dalle keffie rosse, freddi come la luce che li illumina. E’ buio e fa freddo. Ci saranno al massimo tre gradi. Ancora c’è molto silenzio. L’unico calore viene dal baracchino del caffè, un pentolone appoggiato su un minifornellino a gas che dispensa un po’ di fumante acqua calda dall’odore di nescaffe e cardamomo. Poi, piano piano, cominciano ad arrivare. Li vedo comparire dal buio, ognuno con il suo sacchettino di plastica nera nella mano, fantasmi invisibili che diventano persone solo quando la tenue luce dei neon si riflette sui loro volti. Non camminano, non sembrano intontiti dal sonno e dal freddo come me. Corrono e hanno gli occhi svegli, ma le rughe e le occhiaie tradiscono la stanchezza di un’esistenza nera come la loro pelle. Sono i lavoratori palestinesi che hanno un’occupazione in Israele. Sono fortunati, loro: hanno un lavoro e un permesso che consente di uscire dai territori occupati, dove lavoro non ce n’è perché non c’è nessuna attività economica. Alle cinque e un quarto comincia l’ora di punta: è ancora buio e il sole sorgerà solo tra un’ora, ma il piazzale davanti al muro si anima di decine di sherut, i taxi collettivi. Arrivano a tutta velocità, sembra quasi che non si accorgano che davanti a loro c’è un muro alto otto metri che blocca la strada. Non si fermano neanche. Rallentano giusto quel tanto che basta per fare inversione a u e tornare indietro, e mentre fanno questa manovra i portelloni laterali si aprono e vomitano fuori otto, nove uomini, che scendono al volo sfruttando la forza centrifuga per prendere la rincorsa e correre verso l’ingresso del terminal. Si, hanno fretta, devono andare al lavoro. Ma c’è anche chi se la prende con più calma, si ferma a prendere un caffè fumante, più per scaldarsi che per la voglia di bere quella brodaglia nera come il loro umore. Alle cinque e mezza sono già più di un centinaio, tutti in fila, incanalati tra due reti metalliche, come polli in gabbia, lo stesso sguardo di chi sa che il proprio destino è in mano di altri. Quelli che sono arrivati per primi sono già stanchi e si siedono a terra. Sono tutti uomini, di ogni età, molto giovani, ma ci sono anche degli anziani, appoggiati al bastone, lo sguardo perso nel vuoto e la keffia tirata su fino al naso. Le donne, quelle poche che ci sono, non rimangono in mezzo alla fila, vengono subito fatte passare davanti a tutti, loro saranno le prime ad entrare: un tacito accordo che nessuno disattende, una galanteria sottintesa che non ha bisogno di alcuna spiegazione. Gli uomini invece hanno ancora parecchio da aspettare, se va bene il checkpoint aprirà alle sei, e allora, uno alla volta potranno cominciare a passare. Prima dal metal detector, per il primo controllo documenti, uno alla volta, mostreranno al militare dentro il gabbiotto di cemento la loro carta d’identità verde, e sotto, lo sguardo attento del suo M16, potranno dirigersi verso l’ingresso del terminal. Un enorme cartello del ministero del turismo dietro le loro spalle augura ai pellegrini che fanno la strada inversa “ La pace sia con te”. Ma qui la pace è solo per i turisti, non per i palestinesi. Dentro il terminal li aspetta un’altra fila alla fine della quale dovranno spogliarsi: via la giacca, la keffia, le scarpe, la cintura, via anche il pacchetto delle sigarette e ogni altra cosa che non siano le logore magliette e i pantaloni che li vestono. Tutto in fretta altrimenti i militari che dalla balaustra sopra di loro li tengono sotto il tiro dell’M16 si spazientiscono, ma soprattutto perché li dentro fa anche più freddo che fuori. Se tutto va bene dall’altra parte si possono rivestire, sempre in fretta, e correre verso l’ultima fila che li aspetta dall’altro lato, questa volta per il controllo accurato dei documenti: carta d’identità e permesso israeliano per uscire dai territori. Per il militare davanti al computer, codici da inserire nel terminale, per controllare che non siano terroristi o amici di terroristi o parenti di terroristi o solo persone poco gradite al governo israeliano. Poi giù, di corsa verso il piazzale, dove i minibus arabi da venti posti caricano dalle venticinque alle trenta persone alla volta e le portano a tutta velocità verso Gerusalemme. I più fortunati termineranno lì il loro viaggio, ma altri dovranno proseguire verso Tel Aviv o Ramallah, e avranno altre code e altri checkpoints da passare. Oggi sono fortunati, alle sei il checkpoint apre, se aprisse più tardi sarebbe troppo tardi, troppo tardi per arrivare in tempo al lavoro, dove dovrebbero recuperare il tempo perso fermandosi di più a fine giornata, prima di ricominciare il percorso all’inverso che li riporterà verso casa. Hamir è appoggiato alla rete di ferro, il sacchetto nero stretto tra le mani, la keffia avvolta intorno al collo e tanta voglia di parlare. E’ uno dei pochi che sa l’inglese e si ferma volentieri a chiacchierare con noi. Lui è di Betlemme, è sposato e ha tre figli, il più grande di 26 anni, il più piccolo di 6. Tutte le mattine si alza alle quattro per essere al checkpoint alle cinque e mettersi in fila per poter arrivare al lavoro alle sette e mezza. Alle cinque del pomeriggio ha già finito, ma non arriva mai a casa prima delle sette di sera. “ Ma io sono fortunato” dice. Si riferisce a Mohammed, che dietro di lui si appoggia assonnato alla rete e ci guarda senza aprire bocca. Lui è di Hebron, la sua sveglia è alle due del mattino, certe volte anche a mezzanotte. Ma non solo. Mohammed lavora a Tel Aviv, a un’ora e mezza da Gerusalemme. Lui a casa ci torna alle otto, nove di sera. Tutti i giorni, otto nove ore di lavoro e altrettante di viaggio, quando senza i checkpoint in macchina ci metterebbe due ore massimo. Mohammed e Hamir dormono in media cinque ore a notte, lavorano nel campo dell’edilizia, e sono fortunati perché loro un lavoro ce l’hanno. Come loro centinaia di lavoratori palestinesi ogni mattina alle due, alle tre alle quattro si svegliano per andare a fare la fila ai checkpoints. Come loro, centinaia di Palestinesi ogni mattina si recano in Israele per andare a costruire strade, ponti, scuole e case che non potranno mai usare perché loro non sono israeliani. E non sono neanche persone, perché a loro il diritto di esistere come esseri umani è negato, perché non ci sono diritti dove non c’è dignità. E non c’è dignità dove un padre, la sera, quando torna a casa, non ha neanche la forza di prendere in braccio il proprio bambino e dirgli che il suo futuro, se ci sarà, sarà migliore del presente di suo padre, che lavora per la stessa gente che domani potrebbe arrivare con un buldozzer e riprendersi in pochi minuti il frutto di una vita fatta di code e umiliazioni. (questo articolo è stato pubblicato su antenne di pace)

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