sabato 10 marzo 2007

PENSIERI SPARSI

Tra le cose che mi fanno più paura ci sono i miei sentimenti, che custodisco gelosamente dentro di me e non oso spesso esprimere. Non perché non abbia fiducia, o perché pensi che gli altri non riescano a capirli, ma perché credo che se lascio che qualcuno spii dentro le mie emozioni più profonde, allora posso diventare ai suoi occhi vulnerabile e debole, soggetta ad un giudizio esterno che temo possa minare le mie fondamenta. Aprirsi agli altri non è solo un atto di fiducia, è un profondo atto di coraggio, il coraggio di lasciare che qualcuno, anche solo per un attimo, tocchi la tua anima, la profonda essenza di ciò che sei, ciò che, solo, sostiene il tuo essere.

La mia esperienza qui, benchè non sia la prima, sta profondamente mutando tante sicurezze, sta riscrivendo pagine e pagine di profonde convinzioni, e facendo affiorare pensieri e comportamenti che pensavo di non aver mai sposato semplicemente perché non ci credevo. E questo perché la mia convinzione illuminista mi ha sempre dato l’illusione di poter analizzare e capire con certezza le ragioni del mio cuore. Ora comprendo quanto niente di tutto ciò sia mai stato più sbagliato. Sto capendo come lui, il mio cuore, abbia fatto delle scelte tanto tempo fa, sto capendo come lui, abbia spesso capito più di quanto il mio cervello sia mai stato in grado di recepire.

Vivere in Palestina è dura. E’ dura perché qui la violenza più forte e devastante non è quella dei soldati, dei checkpoint, della guerra vera e propria. Qui la violenza più devastante è quella dell’anima, quella sottesa, terrificante violenza alla quale mi sento sottoposta in ogni momento e in ogni luogo, da parte di tutti coloro che sono qui, senza distinzioni di razza o religione.

Qui, dove tanti parlano di pace e di filosofia della non-violenza, pochi in realtà hanno davvero capito cosa significano questi due termini. Qui la gente scambia la parola non-violenza con indolenza, e la parola pace con resa. Qui ogni concetto legato a queste due parole viene rivestito di un falso relativismo pseudo-illuminista: tutti si aspettano che in nome della lotta contro l’oppressione del popolo palestinese anche la non violenza assuma dei connotati “relativi”. Anche chi, come me, non è cresciuto in questo ambiente, non ha vissuto questa oppressione, non è fondamentalemente soggetto a questo scontro totalizzante tra Iasreliani e Palestinesi, si convince presto che per fare qualcosa sia necessario schierarsi. Badate bene, non credo che Israele abbia delle ragioni valide per fare quello che fa, così come non credo che i Palestinesi siano tutti terroristi..

ma…… quando guardo negli occhi un soldato diciottenne cresciuto qui, con il suo fucile, le granate, la pistola, l’elemetto, il giubbotto antiproiettile..ecco, il suo sguardo mi parla lo stesso linguaggio dei ragazzini palestinesi con la keffia che gli copre il volto, la lunga fionda nelle mani e una pila di sassi davanti..I loro occhi parlano lo stesso linguaggio, il loro dolore non è diverso. Non sono uguali, lo so, non li metto sullo stesso piano,non hanno le stesso opportunità e gli stessi diritti, ma il loro cuore parla la stessa lingua, questa è una certezza.

Coma fanno tutti gli internazionali che ci sono qui a non capire che l’unica cosa che davvero possiamo fare noi è non pretendere di assumere su di noi le sole ragioni di chi è visibilmente oppresso annullando ogni capacità di critica, anche se costruttiva. Come si può considerare non violenza lanciare delle pietre grandi come un melone? E come si può considerarsi portatori di pace pensando che urlare in faccia ad un soldato che è un bastardo sia qualificabile come “non violenza”? E questo senza giudicare l’azione in se, senza soffermarsi sulle analisi dei contesti in cui queste reazioni nascono, che le possono rendere comprensibili..ma MAI giustificabili!!!

Continuo a chiedermi come sia possibile non vedere che l’oppressione del popolo palestinese, così palese e identifibile, non è altro che l’altra faccia della medaglia dell’oppressione stessa che il popolo israeliano subisce giorno per giorno, nel clima di paura e odio e diffidenza nel quale fa crescere i propri figli. Il ricatto morale che sta dietro alla scelta forzata che i giovani di questa terra, Palestinesi ed Israeliani, devono compiere è la stessa, è il ricatto a cui anche molti, anzi, quasi tutti gli internazionali, si trovano sottoposti. Ed è un ricatto tanto forte che è quasi impossibile sottrarvisi, è il ricatto del “o con noi o contro di noi”. E’ questa la mia scelta..io non voglio cedere a questo ricatto: sono qui per stare dalla parte degli oppressi, dalla parte di chi subisce, dalla parte di chi lotta ..ma senza fare distinzioni, almeno ci provo, e senza mai perdere la capacità di critica.

Non credo che il fine giustifichi i mezzi. Le vittime di questo conflitto non sono solo i palestinesi, le vittime di questo conflitto sono tutti coloro che ci vivono dentro, sono tutti coloro che non possono decidere di stare nel mezzo, sono tutti coloro che vogliono davvero cambiare le cose, cominciando dalla loro stessa società. Io sto capendo che non posso davvero aiutare nessuno se divento vittima di tutto questo, non posso essere “portatrice di pace” se lascio che la guerra entri dentro di me.

Credo di essere sulla buona strada, credo di stare capendo qualcosa, tra le macerie delle mie convinzioni sto trovando materiale per edificare un nuovo essere.

1 commento:

Unknown ha detto...

anahi,
le certezze che si sgretolano sosno sempre il punto di partenza per il cambiamento che altro non e' che la vita....grazie perche' quello che scrivi mi fa sentire piu' vicina a te,anche se avrei tanta voglia di abbracciarti e poterti stare vicina, e grazie perche'pur senza la pretesa di comprendere quello che stai vivendo e quello che gli oppressi stanno vivendo li' ogni singolo giorno mi stai aiutando a capire qualcosa in piu' di questa umanita'(???).
Un bacio
Anto