giovedì 17 maggio 2007

LA TRAPPOLA


Quando un popolo si trova nella condizione di essere collettivamente minacciato da un fattore esterno, sia questo un'ideologia, un movimento politico, un Paese, la reazione più immediata è una coesione interna, una contro-reazione di spinta verso la propria comunità nell'estremo tentativo, attraverso l'unità e la solidarietà, di creare un fronte di resistenza compatto. Questo meccanismo è tanto inconscio quanto automatico: ne vediamo gli esempi palesi nella comunità internazionale occidentale, dopo l'attentato alle torri gemelle, o alle stazioni dei treni di Madrid, che hanno creato un senso di forte unità tra i paesi "occidentali" in contrapposizione ai paesi "islamici". In breve tempo sono state riscoperte radici comuni, background culturali condivisi, un'unità non solo europea, ma addirittura occidentale, tra paesi, come l'America e la Spagna, ad esempio, che hanno davvero poco in comune a livello di radici storico-culturali. Questa involuzione interna comprende una spinta aggressiva verso l'esterno in una logica di attacco preventivo (non solo metaforicamente parlando) alla ricerca dell'elemento da demonizzare e della precisa identificazione di un nemico verso cui incanalare la paura provocata dal senso di minaccia latente. In modo assolutamente speculare, la stessa dinamica coinvolge la parte opposta: la popolazione musulmana o araba che vive all'interno dei paesi occidentali, nel trovarsi sottoposta a forte pressione e a critica, talvolta ad un vero e proprio attacco violento rivolto alla propria cultura, risponde con un'involuzione interna e una radicalizzazione dei costumi e delle tradizioni legate alla propria identità, così fortemente messe in discussione. Il concetto racchiuso nelle parole del Presidente degli Stati Uniti George Bush "o con noi o contro di noi" parlando della lotta al terrorismo è assolutamente chiaro: in una contrapposizione tra il noi e il loro non esiste spazio per possibili critiche interne o discussioni sulle modalità di lotta, l'unico spazio di movimento consentito è quello che si colloca nella scelta della parte da cui stare.

Questa dinamica crea all'interno delle società stesse un meccanismo di totale distruzione e schiacciamento dei movimenti di società civile, quali ong, associazioni per i diritti umani, ecc., meccanismo che diventa più forte e sviluppa gli effetti più devastanti in paesi che non hanno una lunga tradizione democratica alle spalle, come ad esempio la Palestina. Questo meccanismo si espleta in modo radicale laddove l'attacco che si subisce non sia solo ideologico e culturale, come può esserlo quello tra l'"Occidente" e il "terrorismo", che ha visto sì il verificarsi di episodi violenti fondamentalmente isolati, ma sia un attacco armato e continuo, come di fatto è l'occupazione che Israele porta avanti nei Territori Palestinesi ormai da quasi cinquanta anni. Quello che accade quindi è che all'interno dei TOP tutti i movimenti di società civile focalizzano la loro attenzione e le loro attività attorno al problema dell'occupazione, relegando in secondo piano tutte le altre problematiche interne alla società palestinese. La dinamica che si crea all'interno del conflitto arabo-israeliano, in cui la configurazione del nemico e la conseguente distinzione del noi e del loro è facilmente realizzabile, è di totale schiacciamento di qualsiasi espressione di società civile che non sia inquadrabile nella lotta contro Israele e contro l'occupazione. In paesi a lunga tradizione democratica o supposta tale come i paesi europei, i movimenti di società civile interni sviluppano un'aperta posizione di critica e lotta sociale nel tentativo di condizionare l'elite al potere, e la loro azione si inserisce in un generalizzato contesto che vede la critica verso la propria società come uno strumento di crescita e partecipazione attiva alla vita comunitaria, che acquista un connotato positivo, ed è spesso considerata un indicatore della democraticità e della maturazione sociale di un paese.

In un paese come la Palestina, dove l'occupazione è un meccanismo assolutamente totalizzante che condiziona ogni singolo aspetto della vita dei cittadini palestinesi, dai bambini alle donne, ai vecchi, i movimenti di società civile devono ritagliarsi il loro spazio vitale all'interno dello strettissimo corridoio lasciato aperto dall'occupazione da un lato, e dall'esigenza di una lotta condotta giornalmente, minuto per minuto, ad ogni singolo livello della società, dall'altro. Ogni azione che non rientri in questo spazio diventa quindi una minaccia, un tradimento, un pericoloso tentativo di minare l'unità della popolazione e di modificare quella cultura locale che non è importante in se stessa, ma in quanto espressione di un'identità minacciata che ha bisogno di essere protetta. Essa diventa emblema della resistenza di un popolo di fronte a coloro che, per giustificare l'occupazione, additano la cultura araba come fondamento del problema. Le dinamiche all'interno della quali i MSC (movimenti della società civile) palestinesi si trovano ad operare sono quindi di tripla natura: da una parte il tema della guerra e dell'occupazione è così totalizzante che non può essere ignorato e che ogni altro problema sembra perdere importanza rispetto ad esso; inoltre, occupandosi principalmente di tale questione, essi hanno la completa certezza di raccogliere intorno a sé il maggior consenso possibile, necessario a qualsiasi movimento per perpetuare se stesso; dall'altro lato ogni tentativo di affrontare problematiche interne legate alla cultura e alla società palestinesi viene vissuto dai palestinesi stessi come un tentativo di minare dall'interno quell'unità nazionale considerata fondamentale per portare avanti la lotta contro Israele.

In questo contesto ad essere in pericolo però sono di fatto la società stessa palestinese e il suo sviluppo dal punto di vista della coscienza civile. Tale crescita ha sempre costituito per una società, nel corso della storia mondiale, una modalità per plasmare se stessa secondo i mutamenti della realtà circostante, o per adattare la realtà a se stessa, uscendone trasformata, attraverso processi che in Europa hanno condotto ai movimenti femministi degli anni settanta, o alla liberalizzazione dei costumi degli anni sessanta, o all'affermazione dei diritti dei bambini, degli anziani, delle minoranze.
L'involuzione sociale che la pressione esterna provoca, è da un lato il collante che tiene unita la popolazione palestinese, sostenuta da una rete di solidarietà sociale che in Europa non esiste ormai da tempo, dall'altro l'elemento che ne congela le dinamiche sociali, creandovi tutto intorno un muro di impenetrabile immobilismo.
La conseguenza più immediata di tutto questo è che bisogni fortemente sentiti, come i diritti delle donne o dei bambini, ad esempio, non possano essere efficacemente affrontati, così come quelli di soggetti esclusivamente interni alla stessa società palestinese. La conseguenza remota è invece che l'immobilismo e la chiusura culturale del paese costituiscono una perfetta scusa per l'edificazione dello stereotipo occidentale del "palestinese-mussulmano-radicale-terrorista-violatore di diritti umani".

Ciò che occorre davvero è una rivoluzione interna al modo di affrontare la lotta contro l'occupazione della popolazione palestinese stessa ad ogni livello, nel momento in cui queste dinamiche privano i palestinesi di risorse fondamentali, quali il contributo delle donne, motore del sistema di solidarietà sociale che sostiene il paese, e i bambini, futuro del popolo palestinese, troppo spesso ridotti a vittime inconsapevoli di un sistema violento che scambia il lancio di pietre per coscienza politica. Cercare di cambiare una situazione partendo solo dall'esterno è difficile: il popolo palestinese non ha il potere e le risorse per cambiare la società israeliana o quella occidentale, ma ha tutte le potenzialità necessarie a cambiare se stesso e a creare le basi per condurre una lotta ad armi pari contro un sistema che sta distruggendo non solo la sua terra, ma la sua risorsa più grande, quella umana.

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